La passione
La passione
Quando penso al termine passione, penso al forte potere evocativo che elicita.
Penso subito ad una immagine, alla scultura del Bernini: ” Il ratto di Proserpina”.
Penso, più nello specifico, ad un dettaglio, alle mani di Zeus che affondano la carne della donna.
Al di là della bravura dell’autore e di quello che fosse il suo intento comunicativo, per me, quella mano e la potenza ed il desiderio che veicola, esprimono appieno il concetto di passione:
una spinta, un moto interiore che travalica le mura della paura e del ‘non consentito’ e rincorre il desiderio, il bisogno di appartenenza, dedizione, l’appagamento di una esigenza.
Penso allora al mito di ‘Paolo e Francesca’ raccontato da Dante, a quella passione, a quell’amore che non solo in vita, ma anche nei meandri dell’inferno è rimasto vivo, ardente, incurante.
Si, io declino la passione in termini di amore, appartenenza ma ognuno di noi tende a declinarla in modo personale. Che sia la passione amorosa, sessuale, la passione per un’attività, un lavoro, un progetto, un tipo di esperienza, ciò che la sostiene é il desiderio di vedere soddisfatto un proprio bisogno che quella persona, quell’oggetto, quell’esperienza incarna.
Talvolta quel desiderio può però ‘non sentire ragione’.
Remo Bodei in ‘geometria delle passioni’ ha sostenuto che ‘le passioni hanno pur sempre dentro di sé un nucleo di razionalità’ .
In maniera razionale accettiamo i rischi che quella passione comporta e decidiamo di farci attraversare da questo moto interiore.
Ma accettare dei rischi significa comprenderne la portata?
Si dice che grandi passioni possono generare grandi sofferenze e, l’etimologia stessa della parola ci rimanda all’idea di una ‘profonda e tormentosa affilizione’.
Ma forse, delle passioni, d’istinto, ciò che consideriamo meno è il tormento e ciò che vi associamo di più è il brivido, la carica emozionale che trascina e l’idealizzazione della meta.
Eppure, come Galimberti sostiene in ‘le cose dell’amore’ citando Stendhal: “dubbio e incertezza tengono desto il desiderio e viva la scintilla della passione che la certezza, invece, uccide“.
Cosa sarebbe allora la vita senza passione?
Bisogna però mantenere quel nucleo di razionalità vivido e presente.
Accade che il modo più facile per perdere qualcosa è volerlo troppo.
Facciamo fatica ad accettare perdite, insuccessi, rifiuti perché investiamo un carico pesante di aspettative. È così, che quella spinta, quell’onda alta di emozioni rischia di cristallizzarsi, stringersi, cedendo il passo ad una idea ossessiva, o meglio un’idea prevalente: un pensiero fisso, invasivo che tormenta, e non lascia spazio ad altro.
Il bisogno passa in secondo piano rispetto all’ostinato desiderio di raggiungerlo, di ottenerlo.
Vallerand e coll nel 2003 hanno postulato il cosiddetto ‘modello dualistico della passione’ inferendo che ne esistono di due tipologie, capaci di dominarci ed in grado di coinvolgere la nostra identità ed il nostro’ sè’ in modo differente.
La passione armoniosa consiste nella tendenza positiva a vivere ciò che appassiona in modo propositivo, flessibile, non totalizzante il cui presupposto risiede nella facoltà e nella libertà di scelta. Tale intenzione promuove, secondo alcuni studi condotti dallo stesso Vallerand e Verner-Filion nel 2013, uno stato di benessere psicologico e fisico generale capace di influenzare positivamente la nostra attitudine alla vita. Al contrario, la passione ossessiva, genera uno stato di tensione ed irrigidimento. Si finisce per subire la passione e rincorrerla con ostinazione.
Il confine è quindi sottile ed é importante mantenere quella flessibilità e propositività che ci permette di gestire l’incertezza. È importante che qualunque forma assumano i nostri timori ed insicurezze, non vadano ad affievolire quella fiamma, quella passione armoniosa, che, ardendo, ci rinvigorisce e ci fa sentire vivi.
La passione alimenta, non consuma, dà colore non offusca.
Ma si può, in nome di una passione, giustificare agiti violenti e vili?
Assolutamente No. Il codice penale afferma nell’art 90 quanto stati emotivi e passionali “non escludono né diminuiscono l’imputabilità”.
Viene sancito sul piano giuridico un concetto che prima ancora di essere considerato un tecnicismo risponde ad un importante principio morale ovvero:
passione, gelosia, amore non possono e non devono in nessun modo giustificare un moto violento, vessatorio o addirittura definitivo come può esserlo un omicidio.
La norma fa riferimento a stati emotivi e passionali che si manifestano in una persona sana di mente, ritenuta idonea a controllare le proprie reazioni e la propria affettività.
Spesso canali mediatici o testate giornalistiche, per scelte stilistiche, logorrea verbale o opinabili prese di posizione, riportano titoli e contenuti che, erroneamente, tendono a fare un uso improprio di termini quali gelosia,desiderio, abbandono, perdita,sentimento, sostenendo nessi associativi pericolosi che mai dovrebbero farci porre interrogativi su quanto una violenza, qualsiasi ne sia il carattere o la portata, possa essere perpetrata in nome di un’amore, di una passione.
Dove c’è amore, passione, desiderio non c’è mai violenza.
Dott.ssa Paola Palmiotti – psicologa Cav Pandora
Remo Bodei: “geometria delle passioni” (2003).editore Feltrinelli
Umberto Galimberti: ” le cose dell’amore” (2013)editore Feltrinelli
Vallerand, R. J., Blanchard, C. M., Mageau, G. A.,Koestner, R., Ratelle, C. F.,. Léonard, M. (2003). Les passions de l’âme: On obsessive and harmonious passion. Journal of Personality and Social Psychology, 85, 756-767.
La collera
La collera
Il termine collera in ambito criminologico è spesso oggetto di forte ambiguità.
Quando si ascoltano alcuni casi di cronaca nera o ci si appresta a conoscere le modalità con le quali vengono perpetrati alcuni crimini violenti, spesso si parla di collera, scatti d’ira, raptus.
Finiamo quindi per associare la collera ad un mero impeto che si scatena e si esaurisce velocemente, fa perdere transitoriamente la ragione, la lucidità e ci rende capaci di qualsiasi cosa.
In realtà non è così. Bisogna partire dal dato secondo il quale il raptus non esiste ma appartiene alla cosiddetta sfera della fantapsicologia come afferma Umberto Galimberti. Tale dato, solo recentemente è andato affermandosi in ambito psicologico, psichiatrico e criminologico.
Invece è corretto parlare di consuetudine all’aggressività, all`irascibilità, all’attacco, magari ben celata e che non necessariamente è motivata da una psicopatologia sottostante. Modelli di riferimento, cultura, educazione, valori, principi morali e dettami devianti ed introiettati nel corso dell’esistenza, possono arrivare a determinare e alimentare questa consuetudine, abitudine che ad un certo punto ‘esplode’.
“Non è mai un evento che scatena la violenza ma è sempre un percorso che si conclude con la violenza”.
Questo concetto risulta più comprensibile se, ad esempio, lo si inquadra all’interno del fenomeno del femminicidio. Difatti un marito che picchia o vessa abitualmente una moglie, può, un giorno, arrivare a toglierle la vita.
Ricordate il caso italiano di cronaca nera del 2011 relativo all’omicidio di Melania Rea ad opera del marito Salvatore Parolisi?
La donna fu uccisa dal marito, verosimilmente nel corso di un litigio degenerato, colpendola con 29 ferite profonde provocate da punta da taglio.
L’uomo, riconosciuto capace di intendere e volere, in appello è stato condannato a 20 anni di reclusione.
Aldilà delle vicessitudini giudiziarie, è nella storia di vita dell’ uomo, della relazione con la moglie, nel modus operandi efferato e rabbioso adoperato nel delitto , che è possibile cogliere la consuetudine all’aggressività fatta di comportamenti e atteggiamenti indomiti che arrivano poi, ad un certo punto, a sfociare ed esplodere in un atto ‘assoluto’ e ‘definitivo’ come l’omicidio.
Quanto è importante allora individuare ed intervenire su queste consuetudini e sulle credenze che le sottendono per ridurre il rischio di “perdere il controllo”?
Dott.ssa Paola Palmiotti – Psicologa Cav Pandora
FEEL THE BEAT
Feel the beat
“Feel the beat” ossia “sentire il ritmo” è uno strumento più potente ed efficace di ciò che sembra. Presuppone il porsi in ascolto di sé stessi, a partire dal ritmo del cuore per trarne contenimento dall’ansia, recuperare il respiro, ascoltare ciò che corpo e mente comunicano, in altre parole SENTIRE.
La musica ha scopi anche terapeutici ed è una tra le risorse a nostra disposizione per scoprire qualcosa in più su di sé, per auto-motivarsi, per trarre benessere.
Da sempre la musica accompagna ogni momento della nostra esistenza. Il legame tra psicologia e musica è facilmente intuibile perché le note scatenano forti passioni, legami sociali e ispirano una forma di comunicazione che non passa attraverso le parole.
La vita in sé è musica, scandita da ritmo e armonia.
Il battito del cuore è ritmico, l’alternarsi delle stagioni, del giorno e della notte, le fasi lunari, il ciclo riproduttivo femminile… tutto segue un ritmo ben preciso. L’armonia invece, è la ripartizione proporzionata e bilanciata fra tutto ciò che ci circonda: acqua, terra, aria, cielo…vita!
Numerosi studi recenti dimostrano il legame tra psiche e musica: è stato dimostrato quanto l’ascolto intimo e indipendente della musica implichi un efficace meccanismo di autoregolazione delle proprie emozioni. In questa accezione, l’ascolto musicale potrebbe essere usato per trasformare, mantenere o rinforzare emozioni e stati d’animo, o anche solo semplicemente per rilassarsi.
È facilmente intuibile il perché ascoltare musica allegra susciti e provochi piacevoli ricordi; ma perché si ascolta la musica triste? Quale specie di stimolazione “autolesionista” ci spinge quando siamo tristi, ad ascoltare musica altrettanto triste?
Ebbene, i brani malinconici sembra che abbiano la capacità di provocare emozioni romantiche parallele alla tristezza, che contrastano l’effetto deprimente. Secondo gli studiosi, la tristezza comunicata dalla musica sarebbe meno minacciosa di quella reale e quindi l’ascolto aiuta a gestire le emozioni negative in modo indiretto. A differenza della tristezza provocata dalla vita quotidiana, quella proveniente dalla musica viene vissuta dal nostro cervello come piacevole. Secondo Van den Tol & Edwards (2011), l’ascolto di brani tristi avrebbe una funzione auto-regolatoria , che consiste nel riproporre l’esperienza emotiva, per rimanere in contatto ed intensificare i propri stati emotivi; rievocare ricordi passati, spesso associati al brano scelto; ricercare la “vicinanza di un amico” simbolico. Inoltre, la scelta di un brano triste in momenti tristi, potrebbe essere una valida strategia di coping per fronteggiare un evento spiacevole o stressante.
L’ascolto di una canzone triste può agevolare l’accettazione, può significare ricevere supporto, o avere una funzione empatizzante, in particolare per gli adolescenti, i quali utilizzano spesso la musica come riparo al proprio umore (Saarikallio, 2008).
Ascoltare musica in generale significa allinearsi al proprio stato emotivo, potenziando sentimenti o contenendo emozioni, significa alleviare la solitudine e addirittura rigenerare le cellule cerebrali.
Esistono musiche e brani capaci autonomamente di restituire uno stato emotivo migliorativo poiché capaci di veicolare messaggi importanti, che intensificano sensazioni e inducono alla motivazione.
Ma la musica è anche storia e cultura: si pensi al ruolo della musica nell’espressione dell’auto affermazione, nella lotta femminista contro il razzismo e il patriarcato, nella sovversione di stereotipi maschilisti.
Esiste un vero e proprio filone musicale chiamato “female power”, che afferma il potere femminile, la forza delle donne e il grido di coraggio che le rende complici e mai sole. Dagli anni 70 ai giorni nostri, le donne cantano la loro forza: Nina Simone, Aretha Franklin, Billie Holiday, Janis Joplin e Patti Smith, fino a Madonna, e Rihanna dei giorni nostri. Donne cantanti impegnate nella denuncia della violenza sulle donne, nella lotta alla disparità di genere, e nella diffusione della solidarietà femminile.
Questa rubrica di musica e psicologia ha lo scopo di porre attenzione sugli effetti della musica, perché essa è cultura certo, ma è soprattutto espressione del sé, nonché un sostegno psicologico, terapia comunicativa, è un valido abbraccio in qualunque momento.
Ascoltate musica, coltivatela, approfonditela, esploratela, praticatela in qualunque modo perché ognuno di noi nasce capace di fare musica, a partire dal ritmo di ogni nostro battito, che si fa voce con ogni singolo respiro.
dott.ssa Annachiara Gravinese – psicologa Centro Antiviolenza Pandora – Annamaria Bufi
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